giovedì 8 dicembre 2016

Musica: Leonard Cohen, cantautore, poeta, scrittore e compositore canadese

Leonard Norman Cohen (Montréal21 settembre 1934[1] – Los Angeles7 novembre 2016[2][3][4]) è stato un cantautorepoetascrittore e compositore canadese.
Uno dei cantautori più celebri, influenti e apprezzati della storia della musica,[5][6] nelle sue opere esplora temi come la religione, l'isolamento e la sessualità, ripiegando spesso sull'individuo. Vincitore di numerosi premi e onorificenze, è stato inserito nella Rock and Roll Hall of Fame, nella Canadian Songwriters Hall of Fame e nella Canadian Music Hall of Fame. È inoltre stato insignito del titolo di Compagno dell'Ordine del Canada, la più alta onorificenza concessa dal Canada, e nel 2011 ricevette il Premio Principe delle Asturie per la letteratura.

Biografia

Leonard Cohen è nato a Montréal nel 1934 da una famiglia ebraica immigrata nel Canada. Suo padre, morto quando Leonard aveva 9 anni, era polacco, mentre sua madre era di origine lituana[3] ed era la figlia dello scrittore talmudico Solomon Klonitsky-Kline.[4][5] Cresciuto nel quartiere di Westmount (enclave anglofona della città), si iscrive all'università McGill di Montréal, dove si laurea in letteratura inglese nel 1955.[7] Il periodo universitario vede i suoi inizi nella poesia. La sua prima raccolta vede la luce nel 1956, con il titolo di Let Us Compare Mythologies.
Un primo album di reading esce nel 1957 con il titolo di Six Montreal Poets e contiene otto poesie recitate da Cohen. Nel 1961 viene pubblicata la raccolta di poesie The Spice-Box of Earth. La raccolta riceve critiche positive, con il critico Robert Weaver che lo definisce "probabilmente il migliore giovane poeta contemporaneo del Canada anglofono".[8] Si trasferisce quindi a Hydra, un'isoletta in Grecia famoso rifugio di artisti, da dove nei primi anni sessanta pubblica raccolte di poesie (tra cui Flowers for Hitler) e due romanzi: Il gioco favorito (The Favourite Game1963) e Belli e perdenti (Beautiful Losers1966). Nel primo di essi scrive sull'importanza data alla parola e nello stesso tempo sulla difficoltà di comprenderla:
« Vorrei dire tutto ciò che c'è da dire in una sola parola. Odio quanto possa succedere tra l'inizio e la fine di una frase »
Il primo disco da cantautore, Songs of Leonard Cohen del 1967, non ottenne un gran successo per via dei temi trattati: erano gli anni della spensieratezza hippy e un disco su suicidio e morte andava controcorrente. Per questo motivo molte recensioni dell'epoca stroncarono l'album, ritenendolo troppo triste e depresso. Il riscatto sarebbe venuto, anche se anni più tardi, e oggi il primo disco di Cohen viene ritenuto da molti il suo miglior lavoro.[9] Questo disco delinea il suo profilo di cantautore-poetaː tutti i brani sono pervasi da misticismo e grande malinconia. Agli inizi della sua carriera di cantautore, per via del carattere introverso, gli operatori dello studio di registrazione erano soliti arredare quest'ultimo affinché somigliasse alla sua stanza da letto, e in questo modo il poeta vinceva la paura e riusciva a cantare, sentendosi a casa propria[senza fonte].
Il secondo disco Songs from a Room esce nel 1969 e ne decreta il successo in hit parade: in Canada arriva decimo, mentre in Inghilterra al secondo posto. Questo album propone canzoni che sono divenute pietre miliari, come la bellissima Seems so long ago, Nancy o la celeberrima Bird on the Wire. Con il terzo disco Cohen entra nell'olimpo dei cantautoriː Songs of Love and Hate viene definito uno dei migliori dischi dell'anno[10]. Nel 1970 Cohen si esibisce in tour per la prima volta, con concerti negli Stati Uniti, Canada e in Europa, dove appare nel Festival dell'Isola di Wight.[11] Nel 1972 fa un secondo tour, in Europa e Israele.
Seguirà una raccolta di canzoni live, Live Songs, e nel 1974 il quarto disco in studio, New Skin for the Old Ceremony, con cui inizia la sua collaborazione con il pianista e arrangiatore John Lissauer[12]. Con il disco del 1977 Death of a Ladies' Man, arrangiato con la collaborazione di Phil SpectorCohen comincia a utilizzare un suono più pieno e meno acustico, prediligendo molti strumenti piuttosto che la sola chitarra classica[senza fonte]. Al disco parteciperanno altri musicisti, tra i quali compare anche Bob Dylan.
Segue Recent Songs nel 1979, dove l'artista ritorna a un sound folk più simile agli esordi, e nel 1984 Various Positions, un album folk rock dal sound sperimentale, poco gradito ai fan e alla critica, che lo bollarono come non pienamente riuscito[12], seppur contenente la sua hit più celebre, Halleluja, canzone manifesto del cantautore canadese e diventata una delle ballate più famose al mondo. Nel 1988 è la volta di I'm Your Man, disco nel quale Leonard abbandona la chitarra per passare alla tastiera. Nel 1992 esce The Future, che si aggiudica il doppio disco di platino in Canada e il disco d'argento nel Regno Unito.
Nel 1994 esce il secondo disco dal vivo, Cohen Live, e nel 1997 la seconda raccolta di successi More Best of Leonard Cohen. Negli anni novanta Cohen si trasferisce in un monastero buddhista sulle colline di Los Angeles, e nel 2001 rientra con il live registrato durante il tour del 1979 (Field Commander Cohen: Tour of 1979) e un nuovo disco di inediti, Ten New Songs.[9] Il 2002 è l'anno di uscita di The Essential Leonard Cohen, altra raccolta di successi dopo quella del 1989. In seguito ad altri due anni di attesa Cohen pubblica un disco di inediti da studio Dear Heather, scritto con la sua corista storica Sharon Robinson. Il disco ottenne ottimo successo di pubblico, ma altalenanti risultati per quanto concerne la critica[senza fonte]. Seguono ben tre album live, tra cui Live at the Isle of Wight che riprende il vecchio concerto del 1970 all'Isola di Wight e Live in London. Il 30 gennaio 2012 è stato pubblicato Old Ideas, che ha seguito Songs from the Road (dal vivo) del 2010. Il 22 settembre 2014 esce Popular Problems, tredicesimo album in studio contenente nove brani inediti.
Non basta l'età a cancellare i problemi di cui è fatta la trama della vita, sembra voler dire il neo-ottuagenario chansonnier canadese. Semmai, permette di affrontarli con una saggezza più disincantata nello sguardo.
Quasi a volersi giustificare per la passata assenza dalle scene, il beat insistente di "Slow" apre il disco con un elogio della lentezza ironicamente allusivo, mentre l'organo volteggia verso tonalità blues: "It's not because I'm old/ And it's not what dying does/ I've always liked it slow/ Slow is in my blood". È Cohen stesso, però, a dirsi sorpreso della velocità con cui il nuovo disco ha preso forma. L'accelerazione è dovuta soprattutto alla collaborazione con Patrick Leonard, produttore di Old Ideas e ora accreditato nientemeno che come coautore della quasi totalità dei brani. Da lui derivano, per ammissione diretta di Cohen, la maggior parte delle idee musicali del disco. Ed è proprio questo, in realtà, il punto debole del nuovo lavoro.
Le atmosfere di Popular Problems crescono in varietà, ma - soprattutto nella parte centrale del disco - non sempre riescono a replicare fino in fondo l'equilibrio del predecessore. È quando il contorno si fa più sobrio, allora, che i versi di Cohen riescono a risuonare con più profondità. A partire dal singolo scelto per anticipare l'uscita del disco, "Almost Like The Blues", con un tappeto di percussioni e una magmatica linea di basso ad accompagnare il tocco del pianoforte e i controcanti di Charlean Carmon.

"Essere un songwriter è come essere una suora: sei sposato con un mistero", riflette Cohen con un sorriso. Così, accanto alle contraddizioni dell'amore (il monologo allo specchio di "Did I Ever Love You") e della politica (la vibrante apostrofe post-Katrina di "Samson In New Orleans"), è il problema del destino a dominare ancora una volta le sue canzoni. Allo scetticismo dei sapienti, Cohen contrappone la semplicità dei peccatori: "There is no God in heaven and there is no hell below/ So says the great professor of all there is to know/ But I've had the invitation/ That a sinner can't refuse/ And it's almost like salvation, it's almost like the blues".
Così, le acque del Mar Rosso si aprono sulle note del gospel liturgico di "Born In Chains", invocando una liberazione dalla schiavitù capace di abbracciare "la misura di tutte le misure". E il canto di Davide torna a riecheggiare nell'epilogo di "You Got Me Singing", incurante delle infinite versioni di "Hallelujah", per affidarsi agli accenti folk del violino di Alexandru Bublitchi: "You got me singing even though it all looks grim/ You got me singing the Hallelujah hymn". Non conta la durezza dei tempi: nulla può mettere a tacere il cuore, quando sta di fronte al Signore della Canzone con il proprio canto sulle labbra.

Già in occasione dell’uscita di Popular Problems, Cohen confessa di avere una raccolta di nuove canzoni nel cassetto. Ci lavora intensamente per un anno insieme a Patrick Leonard, poi le sue condizioni di salute subiscono un improvviso peggioramento. “La situazione era buia, la sofferenza acuta, il progetto era abbandonato”, ricorda. Ed è allora che gli si fa vicino il figlio Adam.
Non avevano mai lavorato insieme: troppo ingombrante l’ombra di un padre del genere, per un figlio deciso a seguire le sue orme lungo il sentiero impervio del cantautorato. Ma stavolta le cose erano diverse. “Ha capito che il mio recupero, se non la mia stessa sopravvivenza, dipendevano dalla possibilità di rimettermi al lavoro”. Quando aveva 17 anni, Adam era rimasto per mesi in coma dopo un terribile incidente stradale. Il padre trascorreva le giornate accanto al suo letto, leggendogli versetti della Bibbia. La vita a volte gioca a invertire i ruoli: “Adam ha preso in mano il progetto, mi ha sistemato su una poltrona ortopedica per permettermi di cantare e ha portato a termine queste canzoni incompiute”.

Il disco, intitolato You Want It Darker, esce nell'ottobre del 2016 e a introdurlo sono le voci di un coro. Non il consueto controcanto femminile, ma il coro della congregazione Shaar Hashomayim, la più antica sinagoga aschenazita del Canada. La sinagoga della famiglia di Cohen. Ed ecco il groove pulsante del basso stendere il tappeto per quell’inconfondibile baritono. Il coro intona insieme a lui l’inizio del Kaddish: “Magnified and sanctified/ Be Thy Holy Name”. La preghiera della lode, la preghiera del lutto. Un inno funebre a sé stesso, o forse all’umanità. “I’m ready, my Lord”, mormora Cohen. Ma le sue parole non sono semplicemente un commiato. Riecheggiano l'antica risposta di Abramo: hinneni, eccomi. Lo sguardo del padre che affida completamente sé stesso.
Occorreva l’amore di un figlio, per restituire a Cohen il rigore del classico. E che You Want It Darker sia destinato a occupare il posto di un classico lo si capisce già dall’essenzialità della copertina, da quel gioco di contrasti in bianco e nero che chiama in causa direttamente il passato. Il capitolo finale di una trilogia che lascia da parte i residui orpelli di Popular Problems, per raggiungere una sobrietà ancora più misurata di quella di Old Ideas.
Dal pianoforte di “Treaty” si leva un fremere di archi che anticipa la ripresa orchestrale posta in chiusura del disco. “I wish there was a treaty/ Between your love and mine”, invoca Cohen. Non con la rassegnazione del compromesso, ma con la sofferta consapevolezza dell’irriducibilità dell’altro a qualsiasi conquista. La collaborazione con Patrick Leonard lascia in eredità i tratti musicali più elaborati, dall’organo che introduce il gospel in chiaroscuro di “If I Didn't Have Your Love” al lirismo gitano di “It Seemed The Better Way”, mentre l’unico episodio firmato insieme a Sharon Robinson, “On The Level”, contribuisce ad alleviare la trama dell’album con le sue tonalità soul.
È un disco fatto di congedi, You Want It Darker. È il testamento di un uomo pronto a fare un passo indietro rispetto al trasporto della passione (“I turned my back on the devil/ Turned my back on the angel too”, confessa in “On The Level”), un passo indietro rispetto alla battaglia quotidiana (“I do not care who takes this bloody hill”, proclama in “Treaty”). Un passo indietro per contemplare finalmente il disegno delle cose, non per rinunciare a possederle. Tra nostalgici riverberi twang e ricami di pedal steel, “Leaving The Table” lo riassume con la semplice forza di un’immagine (“I’m leaving the table/ I’m out of the game”), mentre Cohen si ritrova a osservare con distacco il gioco della commedia umana.
“I’m traveling light/ It’s au revoir”. Il viaggio è lungo, il bagaglio leggero. Il coro di “Traveling Light” risuona come il canto lontano delle donne di uno shtetl, come la memoria di una danza klezmer sulle corde del violino, una “Dance Me To The End Of Love” offerta in dono a Matt Elliott. Nella valigia resta solo l’indispensabile, mentre quel crooning grave come il tempo declama l’ultimo arrivederci.
Uno dopo l’altro, cadono tutti i fardelli inutili. Ombre di donna e rovine di centri commerciali, cicatrici di ferite e certezze consumate. Sulle partiture da camera di “Steer Your Way”, il vecchio chansonnier le attraversa come se fossero vestigia di un altro tempo, di un’altra vita. “Year by year/ Month by month/ Day by day/ Thought by thought”. A restare, più di tutto, è il bisogno di portare a compimento ciò che si è iniziato. Ed è proprio questa, in fondo, l’essenza di You Want It Darker.

L'11 novembre 2016 a gelare tutti arriva la notizia pubblicata dal suo agente sulla pagina Facebook ufficiale: "È con profonda tristezza che diamo notizia della morte del poeta, compositore e artista leggendario Leonard Cohen. Abbiamo perduto uno dei visionari più prolifici e rispettati del mondo della musica". Solo pochi mesi prima, Cohen aveva dovuto dire addio a Marianne Ihlen, la donna incontrata negli anni Sessanta sull'isola greca di Hydra e che gli aveva ispirato canzoni come "So Long, Marianne" e "Bird On A Wire": "Ti ho sempre amata per la tua bellezza e per la tua saggezza - furono le sue parole - ma non serve che io ti dica di più poiché lo sai già. Adesso voglio solo augurarti buon viaggio. Addio vecchia amica, amore infinito. Ci vediamo lungo la strada".
A David Remnick del “New Yorker”, in occasione dell'uscita di You Want It Darker, Cohen aveva confidato i versi su cui stava ancora lavorando. A occhi chiusi, in un sussurro. “Listen to the mind of God, wich doesn’t need to be”. La tradizione ebraica la chiama bat kol, la voce dal cielo: “Un’altra realtà che canta sempre al tuo orecchio dal profondo, anche se per la maggior parte del tempo non sei grado di decifrarla”. A volte, esserci non significa altro che ascoltare. E non c’è voce più grande di quella di chi ha imparato ad ascoltare. “Listen to the mind of God/ Don’t listen to.

Brani celebri

Alla musica, Cohen si avvicina grazie alla cantante e amica Judy Collins che per prima ne interpreta alcune canzoni e lo esorta a tentare la fortuna con la musica, spingendolo a suonare e cantare in pubblico[senza fonte]. La sua canzone Suzanne del 1966 ne decreta il successo universale. Altri brani celebri di Cohen sono: Famous Blue RaincoatThe PartisanSo Long Marianne[16]Chelsea Hotel #2Sisters of MercyHallelujah, resa ancor più famosa dalle molteplici cover, in particolare da quelle di Jeff BuckleyBob Dylan (eseguita in più concerti durante il 1994, ma mai pubblicata ufficialmente), Bon Jovi e John CaleWaiting for the MiracleTower of SongFirst We Take Manhattan (molto nota è la cover di Joe Cocker) e Bird on a Wire. Da segnalare anche il film I'm a Hotel (1985).
Famous Blue Raincoat è la lettera di un uomo al suo migliore amico, con cui sua moglie lo ha tradito tempo prima. Non vi è tuttavia odio o risentimento nelle parole dell'autore, bensì nostalgia, e addirittura gratitudine per aver tolto dagli occhi della donna quella tristezza che il marito credeva impossibile superare: "E se mai dovessi tornare indietro / per Jane o per me / sappi che il tuo nemico è addormentato / e la sua donna è libera". Sister of Mercy, in base alle note nel suo Greatest Hits, evoca l'incontro con due donne di nome Barbara e Lorena in una camera d'albergo a Edmonton, Canada. Chelsea Hotel # 2 tratta della sua breve relazione con Janis Joplin senza sentimentalismo, ma il brano rivela la presenza di un certo affetto. Cohen descrive la canzone in un'intervista filmata per il concerto-tributo a lui dedicato: egli conferma inoltre che il soggetto è effettivamente Janis con qualche evidente imbarazzo. "Lei non mente", egli dichiara, "ma mia madre sarebbe inorridita". Il suo Greatest Hits è stato eletto da una rivista inglese «l'album più deprimente di sempre», ma ha conquistato la rivista Rolling Stone che gli ha attribuito il massimo punteggio[senza fonte].

Nessun commento:

Posta un commento